Il senso occlusale positivo – un caso di coscienza (quinta parte): terapia
Dopo definizione, dinamiche neuropsichiche, sintomatologia e prevenzione, concludiamo questa breve trattazione con la terapia.
Se il paziente riferisce precontatti o slivellamenti occlusali che il dentista non riesce a evidenziare, pur con un accurato esame occlusale, la terapia non deve essere una ulteriore correzione occlusale, magari seguendo indicazioni soggettive del paziente, ma la rieducazione cognitivo comportamentale, psicoterapia, farmacoterapia e terapia gnatologica reversibile tramite l’uso di placche di svincolo (bite). Ossia, in altre parole, la condotta terapeutica si dovrà indirizzare verso quegli organi o apparati in cui si rileva una oggettività di segni sui quali ci sia spazio per un intervento correttivo. Quindi se lo stato occlusale non presenta imperfezioni oggettivabili con i normali presidi diagnostici a disposizione del dentista, è inutile (e pertanto potenzialmente dannoso) incaponirsi con modifiche occlusali condotte più o meno alla cieca che non faranno altro che sottolineare e legittimare un atteggiamento ossessivo del paziente nei riguardi del disturbo, dell’occlusione, del contatto. Occorrerà pertanto indirizzare l’attenzione verso gli altri apparati e sistemi coinvolti nella cenestesi . Se, come si evince dalla definizione, il disturbo consiste essenzialmente in un senso, sensazione, consapevolezza o coscienza, bisognerà agire riguardo al sistema responsabile di tali eventi, cioè sul sistema nervoso.
Tuttavia se il paziente si rivolge a noi, che siamo dentisti, è perché attribuisce ai denti il proprio disagio, e in effetti sui denti il disagio si manifesta, anche se i denti non ne hanno responsabilità diretta. Il SOP, nella sua accezione pura, ossia di “senso” avulso da momenti causali occlusali clinicamente rilevanti e rilevabili, è una forma di allucinazione e come tale va trattata, quindi, in fin dei conti, farmacologicamente. Ma siccome noi siamo dentisti ed essendo il SOP, comunque , una forma di allucinazione minore, prima di ricorrere a farmaci di cui non possediamo dimestichezza, ovvero indirizzare il paziente da uno psichiatra (decisione delicatissima da comunicare!) vale la pena di provare un intervento occlusale, ossia il bite plane, con la speranza di distrarre lo schema occlusale e la sensazione a partenza e bersaglio occlusale. Il bite va bene in quanto presidio reversibile. Se inutile o dannoso, può essere eliminato senza problemi. Evitare invece nella maniera più assoluta i ritocchi occlusali anche quando, come avviene quasi sempre, il paziente indichi con estrema precisione (arriva anche a indicare il versante cuspidale) la sede del contatto disturbante. Essendo una forma allucinatoria, eliminare col molaggio il contatto indicato, equivarrebbe, per uno psichiatra, a zittire le voci che il paziente schizofrenico dice di sentire ( Da notare tuttavia che talvolta all’indicazione del paziente può corrispondere un piccolo precontatto che passerebbe inavvertito in un paziente normale e inosservato ad un esame routinario. Si verifica cioè un incremento della sensibilità occlusale donde il nome ipervigilanza occlusale. Questa ipervigilanza sopravanzerà sempre la buona volontà del dentista).
La gestione del bite può non essere semplice in quanto, anche se efficace, in personalità che hanno sviluppato SOP e che ci vivono attorno, occorre evitare che il bite assurga a simbolo eccessivamente ingombrante, arrivando a costituire, a sua volta, una forma di patologia. Al bite va pertanto affiancato un supporto psicologico che, limitatamente alle nostre competenze, consiste nel far capire al paziente che siamo a conoscenza del problema, che esso non è fittizio, che ha delle basi neuroanatomiche ben precise e infine, con parole semplici, spiegarle al paziente. La soddisfazione dell’esigenza di causalità propria dell’essere umano, conoscere cioè la causa di un fenomeno, ne diminuisce la carica emozionale e ne elimina l’angoscia. E questo è già di per sé una buona terapia.