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Istituto Di Ricerca e Formazione – Giorgio Magnano MD – Vittorio Magnano DDS, MSc, BSc

Autore: Vittorio Magnano

Placca di michigan

La placca di Michigan

Scopri quello che c’è da sapere sulla placca di Michigan o “bite”.

In questo articolo di approfondimento andremo a parlare delle diverse tipologie di bite:

Cos’è il bite

Il bite è un apparecchio rimovibile in resina dura che, ricoprendo totalmente o parzialmente le arcate dentali e le superfici occlusali dei denti, ne elimina tutti i contatti diretti.
Concettualmente tuttavia si può definire “bite” qualsiasi oggetto posto fra i denti che ne impedisca il contatto, come per esempio un semplice rullo di cotone.
In effetti, qualora un contatto dentale abnorme in quantità (parafunzioni) o in qualità (malocclusioni) o entrambi, induca una disfunzione o una patologia clinicamente rilevabile come muscolare, articolare o mista, è intuitivo che basta impedire detto contatto abnorme e sostituirlo con un alternativo, per dare immediato sollievo al paziente.

Bite in commercio

Esistono una moltitudine di ”bite” commerciali preconfezionati e facilmente adattabili a tutti i pazienti e, almeno inizialmente, più o meno tutti funzionano.
Si tratta in questi casi di bite cosiddetti intercettivi che impedendo il contatto dentale, quale che sia la loro foggia o consistenza, eliminano in modo rapido la noxa patogena.
Indubbiamente se noi frapponiamo in un’occlusione disfunzionale uno spessore, l’occlusione non c’è più e inoltre il repentino cambiamento dello schema occlusale abituale spezza gli engrammi muscolari consueti, disorientando il sistema neuromuscolare e interrompendo o alleviando temporaneamente le eventuali parafunzioni.
Da ciò deriva il repentino miglioramento dei dolori in tutti i pazienti cui sia applicato un bite.
Di questi bite commerciali intercettivi, si può con profitto avvalere anche il fisioterapista che si trovi per la prima volta al cospetto di un paziente di cui si sospetti una noxa patogena occlusale.
Come terapia d’urgenza e provvisoria, uno di detti bite può essere consigliato al paziente in attesa di diagnosi medica.

Bite in commercio
Bite intercettivi in commercio: morbidi, duri, completi, segmentari, piatti, indentati, superiori, inferiori etc.

Tuttavia tramite il bite noi abbiamo la preziosa possibilità non solo di intercettare il disturbo, ma anche di impostare in maniera altrettanto rapida, relativamente economica e quel che più conta, inizialmente reversibile, future determinanti della terapia occlusale definitiva.

In altre parole, l’odontoiatra ha, tramite il bite, la possibilità di svitare via in un attimo l’occlusione e la funzione deviante, sostituendola immediatamente con una funzionale e stabile.

Alla luce di quest’ultima affermazione risulta chiaro che il bite non basta più sia “qualcosa” fra i denti, ma deve essere “ una cosa ben precisa fra i denti che dia innanzitutto stabilità alla mandibola sulla mascella e permetta di impostare, collaudare ed eventualmente modificare una nuova funzione occluso-masticatoria.

Si passa pertanto dal concetto di bite terapeutico che allora deve rispondere a ben precise esigenze.


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Bite terapeutici

Il bite terapeutico si divide in due tipi:

  • Il bite di stabilizzazione
  • Il bite di riposizionamento

Bite di stabilizzazione 

E’ ormai universalmente accettato che il bite di stabilizzazione è piatto, totale, possibilmente applicato all’arcata superiore, o comunque all’arcata meno stabile.
Esso deve essere applicato ed equilibrato nella bocca del paziente dal dentista, perfettamente e con assoluta precisione, badando che riceva un contatto simultaneo tra i denti dell’arcata antagonista e che abbia delle guide durante i movimenti eccentrici, lateralmente a carico dei canini e anteriormente a carico degli incisivi e dei canini, oppure soltanto dagli incisivi, o anche solo dai canini, basta che le guide siano simmetriche rispetto alla linea mediana dei denti e che non provochino deviazioni disimmetriche durante i movimenti guidati in appoggio.
Non ci soffermiamo sui particolari tecnici di equilibratura del bite, né sulla sua gestione terapeutica, in quanto queste operazioni sono a carico assoluto del medico e non del fisioterapista, il quale deve soltanto conoscerne la definizione e il significato.
Il bite di stabilizzazione si usa nelle patologie croniche dell’ATM e nella cronicizzazione delle dislocazioni funzionali del disco articolare .
Si usa inoltre in tutta la patologia muscolare, posturale discendente, miofasciale, parafunzionale varia e nel bruxismo
In tutte queste patologie, gli esercizi fisioterapici e le eventuali manovre di mobilizzazione, vanno eseguite con il bite in bocca.

BITE DI STABILIZZAZIONE
Un bite di stabilizzazione equilibrato con le cuspidi di centrica, la guida canina e la guida protrusiva

Bite di riposizionamento 

Il bite di riposizionamento, come dice la parola, serve a riposizionare la mandibola qualora la posizione imposta dall’occlusione sia gravemente disdicevole alla salute soggettiva o oggettiva del paziente.
Esso consiste in un bite in genere superiore con vallo tondeggiante sulla sua parte anteriore che, andando ad interferire sulla abituale linea muscolare di chiusura urtando sui denti anteriori inferiori, imponga alla mandibola una nuova posizione di chiusura, in genere, ma non necessariamente, leggermente avanzata rispetto all’abituale originaria disfunzionale .
Siccome questo bite è in genere antiestetico e fastidioso e in svariati eventi patologici va portato 24 ore su 24, anche ai pasti, il medico può, su richiesta del paziente, confezionare anche un secondo bite inferiore indentato con la resina in modo da imporre la stessa posizione del superiore col vallo, da portare non ovviamente insieme ma “ invece” del superiore durante la veglia e i pasti, confinando l’uso del superiore ai periodi di sonno.
Il bite di riposizionamento si usa quasi esclusivamente nella prima fase (tre, quattro mesi) della terapia dei click reciproci e, ma questa volta non sempre, ma ad intervalli, nella infiammazione del tessuto retrodiscale, quando occorra scaricare le aree lese endoarticolari da pressioni condilari.
In genere, durante i riposizionamenti, non si praticano fisioterapie aggiunte, in quanto si tratta di fasi transitorie con posture mandibolari ipercorrette.
Tuttavia, qualora il medico ne prescriva, esse vanno eseguite col bite in bocca.
Date queste linee guida generali sui bite, c’è da sottolineare che oggigiorno il ruolo del bite di riposizionamento è stato messo in discussione dalla comunità scientifica internazionale e spesso i disturbi possono migliorare con terapie che mantengano la posizione originale del condilo nella fossa glenoidea attraverso l’uso di bite di stabilizzazione e di terapie “biopsicosociali”

IL BITE DI RIPOSIZIONAMENTO
Un bite di riposizionamento superiore con il vallo anteriore


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Il bite mandibolare

Spesso si sente parlare di bite mandibolare.
Questa accezione è superficiale in quanto il bite può essere di fatto posto sulla arcata della mandibola, e quindi “mandibolare”, o sulla arcata della mascella, e quindi “mascellare”.
Di fatto in ambito medico si utilizza semplicemente il termine “bite” perché, a seconda delle esigenze cliniche, il medico sceglie se confezionarlo per la mascella o la mandibola.

Bite superiore o bite inferiore?

Quali sono le discriminanti che fanno scegliere di mettere un bite superiore o inferiore?

  • Prima regola generale: il bite va messo nell’arcata con meno denti. Visto che il suo requisito principale è e deve essere la stabilità, l’arcata meno stabile è quella con più assenze di denti e perciò è li che il bite trova la sua migliore applicazione.
  • Il bite va messo nell’arcata ove sono presenti selle libere, siano esse anteriori o posteriori.
  • Se entrambe le arcate hanno un numero uguale di denti, normalmente il bite va messo superiormente. Questo perché la mascella, non essendo mobile, è di per sé più “stabile” e non è presente la lingua.
  • Il bite normalmente va messo di notte e nei momenti di pausa (a casa, sul divano, mentre si guarda la TV, quando ci si riposa). Ci sono casi in cui è meglio metterlo tutto il giorno. In questi (rari) casi, si può confezionare un bite superiore per la notte e uno inferiore per il giorno.
  • Nei rari casi in cui il bite andasse portato tutto il giorno e durante le attività sociali (mangiare, parlare, andare a lavoro, sorridere), il bite inferiore è più “comodo” e adatto a questo utilizzo.

Grande rialzo seno mascellare

Il grande rialzo del seno mascellare: tecniche a confronto e come limitare le complicanze

In questo articolo parleremo del grande rialzo del seno mascellare:

Introduzione

Il grande rialzo del seno mascellare e la GBR (Guided Bone Regeneration) hanno ormai dimostrato di avere indici di successo molto alti.
Uno studio retrospettivo multicentrico condotto su 123 impianti dopo un carico da 1 a 5 anni ha mostrato un 97,5% di successo. Ancora, una revisione sistematica che comprendeva l’inserimento in osso rigenerato di 9265 impianti ha mostrato un successo del 91,93%.
E’ inutile dire che il successo clinico del grande rialzo di seno dipende da una meticolosa analisi di fattori di rischio come le ostruzioni nasali, eventuali traumi pregressi alla faccia, le infezioni al seno pregresse, presenza di sintomi allergici, anomalie del gusto e dell’olfatto, disturbi respiratori cronici e precedenti interventi al seno mascellare.
Vediamo adesso la tecnica corretta e alcune varianti da tenere come possibilità alternative.

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Tecnica chirurgica

Incisione del lembo

L’incisione del lembo deve essere a spessore totale e, in genere e se non sono necessarie procedure rigenerative extrasinusali simultanee, al centro della cresta con la lama del bisturi perpendicolare e a contatto con il piano osseo.

Incisione verticale

Per l’incisione verticale il punto di partenza dipende dall’estensione mesio-distale del seno mascellare e dalla presenza o assenza di denti adiacenti

Disegno della boccola ossea di accesso

Il disegno della boccola può essere svolto per “deflessione” spingendola all’interno del seno insieme alla membrana, per “erosione” quando lo spessore osseo è molto sottile o vi è una difficoltà nell’accesso chirurgico, oppure per “rimozione” (personalmente quella che utilizzo di più) che permette di riadattarla a completare la chiusura a dell’antrostomia a fine chirurgia.

Disegno della boccola ossea
Una antrostomia per “rimozione” della parete ossea di accesso al seno mascellare
parete ossea dell'antrostomia
La parete ossea dell’antrostomia rimossa e pronta ad essere ricollocata


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PIezochirurgia vs. strumenti rotanti da manipolo dritto

Entrambe le tecniche per il disegno dell’antrostomia hanno vantaggi e svantaggi.
La piezochirurgia ha il vantaggio di una estrema precisione e di preservare e non danneggiare eventuali strutture nobili come vasi o nervi che dovessimo incontrare nel percorso (possibilità che dovrebbe essere già stata comunque analizzata in CBCT Cone Beam). E’ però piuttosto lenta nell’esecuzione.
Gli strumenti rotanti sono più veloci ma richiedono maggiore esperienza e una “mano”più delicata.

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Preparazione dell’antrostomia

Macroantrostomia

Una antrostomia grande (macroantrostomia) facilita l’accesso chirurgico e il sollevamento della membrana però comporta una diminuzione dei gettoni vascolari provenienti dalla grande parete rimossa e una minore stabilità dell’innesto con maggior rischio di dislocazione del biomateriale.

Microantrostomia

Una antrostomia più piccola (microantrostomia) d’altra parte è più conservativa, conferisce un maggior supporto vascolare, una guarigione più veloce e minor rischio di dislocazione dell’innesto osseo. Necessita però di più esperienza e la visione del sito chirurgico è più difficoltosa.

Elevazione e distacco della membrana sinusale

L’evasione e distacco della membrana sinusale è una fase fondamentale che necessita la massima attenzione e l’utilizzo di strumenti affilati per lo più manuali (esistono inserti anche per la piezochirurgia per questa fase). Si comincia il distacco della membrana dalla parete mesiale all’antrostomia e si procede verso distale.

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Inserimento dell’innesto

Segue anch’esso un protocollo. Si comincia con l’inserimento di una membrana in collagene a proteggere la membrana sinusale da eventuali perforazioni che l’innesto osseo potrebbe causare una volta inserito. La membrana in collagene ha anche uno scopo riparativo qualora accidentalmente la membrana sinusale si perforasse nelle procedure di preparazione (antrostomia + elevazione della membrana)

inserimento dell’innesto rialzo seno mascellare

Sarebbe bene che il biomateriale collagenato venisse trattato a formare un “blocco”, magari con l’aiuto di concentrati piastrinici (vedi foto sottostante), ricchi di fattori di crescita. L’innesto è più immobile e stabile e la guarigione facilitata.

concentrati piastrinici rialzo seno mascellare

Una volta “zeppato” il biomateriale possiamo richiudere l’antrostomia o con la parete ossea rimossa più una membrana in collagene o semplicemente con una membrana in collagene meglio se in più strati.

Le membrane di concentrati piastrinici, ancora una volta, ci aiutano a sigillare con un ultimo strato, sopra le membrane in collagene, la chiusura dell’antrostomia.


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Se questa tecnica viene supportata da una pianificazione digitale (così come avviene per le protesi totali avvitate su impianti) e dal confezionamento di una dima che ci indica i bordi esatti dell’antrostomia, avremo utilizzato la tecnologia per il bene nostro e del paziente, minimizzando i rischi chirurgici e di pianificazione che sono insiti nell’errore umano.

La pianificazione digitale di due impianti con il grande rialzo del seno mascellare
La pianificazione digitale di due impianti con il grande rialzo del seno mascellare simultaneo
stampa 3D di un modello stereolitografico
La stampa 3D di un modello stereolitografico dell’anatomia del paziente e della dima chirurgica per il disegno preciso dell’antrostomia e della guida per l’inserimento degli impianti

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Concetti di relazione centrica fra passato e presente

Concetti di relazione centrica fra passato e presente

In questo articolo di approfondimento, dedicato alla relazione centrica, parleremo di:

Definizione relazione centrica

Per anni la gnatologia classica ha basato tutta la sua filosofia, e quindi la terapia, sul concetto dell’asse cerniera terminale.

Ciò significa che si riteneva ideale fare corrispondere la massima intercuspidazione dei denti alla posizione più retrusa dei condili nella fossa glenoide (detta anche relazione centrica).

La relazione centrica veniva definita come “la posizione non forzata e più retrusa dei condili nella fossa glenoide dalla quale si possono compiere movimenti laterali a qualsiasi punto di apertura della bocca” (dal <<Glossary of Prosthodontic Terms>>).

Altre definizioni di relazione centrica si riferivano alla posizione del condilo “più crinale, più retrusa e più mediale nella fossa glenoide”.

Con i condili fermi in tale posizione retrusa (chiamata anche di asse cerniera terminale) la mandibola può compiere un movimento di apertura e chiusura simile ad un arco di cerchio avente il centro di rotazione nei condili.

Si pensava allora che quando i condili sono in questa posizione la muscolatura e l’A.T.M. siano in una condizione funzionale ottimale.

Ora vediamo il perché. La figura 1 dimostra la direzione risultante sul condilo (freccia R) delle forze esercitate dai muscoli della chiusura temporale (TP), massetere e pterigoideo interno (MS-PI).

Tale risultante, come si può notare, tende ad alloggiare i condili nella fossa in una posizione supero-anteriore contro l’inclinazione posteriore dell’eminenza, nonostante che alcune fibre del temporale (che rappresentano però solo una minoranza rispetto a tutte le altre) siano orientate posteriormente.

Anche in una situazione di riposo della mandibola il tono degli stessi muscoli tende ad alloggiare i condili nella medesima posizione nella fossa; diventa importante a questo punto anche l’attività dello pterigoideo esterno inferiore (avente un’azione protundente sul condilo).

Nella posizione di riposo il disco articolare deve essere propriamente interposto tra il condilo e l’eminenza in posizione leggermente avanzata fino a quando lo permette il suo bordo posteriore spesso.

Se in questa posizione interviene una forte contrazione dei muscoli elevatori, la posizione del condilo non muta ma interviene solo una piccola rotazione posteriore del disco articolare.

Relazione concentrica

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Se, in accordo coi concetti della gnatologia classica, si alloggiasse il condilo nella posizione postero-superiore più retrusa nella fossa interverrebbero due fattori negativi:

  • La sfavorevole disposizione di condilo, disco ed eminenza rispetto alle forze di chiusura,
  • La compressione del condilo sull’aspetto posteriore del disco e sul tessuto retrodiscale.

Poiché il tessuto retrodiscale è altamente vascolarizzato e rifornito abbondantemente di fibre nervose, non è strutturato per sopportare adeguatamente delle pressioni.

Perciò quando le forze vengono esercitate in questa zona vi è grande possibilità di generare dolore o distruzione dei tessuti (ovviamente a lungo termine).

Da un punto di vista anatomico si può notare la grande sottigliezza dell’aspetto postero-superiore della fossa mandibolare relativamente a quello antero-superiore che è molto più spesso.

Alloggiamento del condilo secondo i dettami della gnatologia classica

Inoltre, i tessuti molli sottostanti allo strato fibroso superficiale articolare (e cioè il mesenchima indifferenziato, lo strato iperplastico, ipertrofico e quello cartilagineo) sovrastanti il tessuto osseo esibiscono un maggior spessore nella parte antero-superiore del condilo e posteriore dell’eminenza.

Queste caratteristiche anatomiche e istologiche stanno a dimostrare quali siano le zone più appropriate a sopportare gli stress occlusalmente generati.

Per di più la posizione postero-superiore del condilo nella fossa (come ottenuta secondo le manovre manipolative della gnatologia classica), determinando una compressione del tessuto retrodiscale, predispone l’A.T.M. ai disturbi del tipo della dislocazione distale.

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Posizioni muscolo-scheletricamente stabili

Vediamo ora di collegare le due posizioni (postero-superiore ed antero-superiore) alla fisiologia dell’A.T.M. per comprenderne bene i relativi vantaggi e svantaggi clinici.

Nella posizione di riposo della mandibola lo spazio intra-articolare è leggermente allargato ed il disco è ruotato in avanti, a causa del tono del muscolo pterigoideo esterno superiore, fino a quando lo permettono sia la pressione intra-articolare che lo spessore del bordo posteriore del disco.

Quando i muscoli elevatori si contraggono con forza, il disco ruota leggermente indietro e il condilo si alloggia contro la sua parte sottile che si interpone così tra lo stesso e l’eminenza.

Come abbiamo visto, il condilo rimane infatti alloggiato nella parte supero-anteriore della fossa appoggiato all’inclinazione posteriore dell’eminenza.

In questa posizione le strutture articolari, oltre ad esibire la massima stabilità, si trovano nella condizione ottimale per sopportare le forze esercitate dalla muscolatura.

La massima intercuspidazione dei denti dovrebbe quindi corrisponderle perfettamente.

Da ciò deriva la definizione attuale di relazione centrica che viene considerata come “la posizione più anteriore e superiore dei condili nella fossa con il disco propriamente interposto”.

Questa posizione viene ritenuta quella muscolo-scheletricamente più stabile e quella corrispondente ad un ottimale equilibrio neuro-muscolare.

È importante sottolineare a questo punto come la posizione condilare secondo la definizione esposta prima venga raggiunta clinicamente manipolando la mandibola con la tecnica bimanuale di Dawson (fig. 3).


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Malocclusione e dislocazione del disco articolare

Nel caso in cui (per via della posizione distale del condilo come determinata dalle manovre gnatologiche o a causa di una malocclusione) la massima intercuspidazione spinga il condilo troppo supero-posteriormente, si verifica una disarmonia tra la posizione condilo-disco-fossa determinata dai muscoli e quella determinata dall’occlusione dentale.

Al termine di ogni colpo masticatorio infatti (prima di qualsiasi contatto tra i denti) accade che i rapporti tra i componenti denti dell’A.T.M., come muscolarmente determinati, siano corretti, essendo il disco interposto con la sua parte sottile tra le due superfici ossee.

Quando interviene la massima intercuspidazione, una nuova ed irresistibile forza diventa la determinante finale della posizione del complesso disco-condilo.

Tale forza sopravanza l’effetto dell’azione muscolare che ha agito fino a questo momento (fig. 4).

spostamento distale della mandibola

Durante la fase di schiacciamento terminale, quando l’esplicazione della forza muscolare è massima e il disco è immobilizzato contro la superficie temporale, il condilo viene spostato distalmente comprimendo il disco.

Lo pterigoideo esterno inferiore può cercare di ostacolare tale movimento entrando in contrazione; un danno può essere provocato alle fibre orizzontali interne del legamento tempo-mandibolare e ai legamenti collaterali.

Il condilo può allora incunearsi nel tessuto retro-discale dando origine ai sintomi della dislocazione distale.


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Relazione centrica e problemi muscolari

Se all’applicazione della forza viene interessata qualche zona riccamente innervata possono insorgere dolori alla masticazione ed instaurarsi problemi muscolari tipo splinting o spasmi difensivi.

Se consideriamo l’A.T.M. sana, si può notare che esiste una certa libertà di movimento posteriore rispetto alla posizione muscolo-scheletrica più stabile, mentre i condili rimangono nella loro posizione maggiormente elevata.

Tale libertà antero-posteriore (che viene sfruttata nella cosidetta centrica lunga che permette una libertà orizzontale anteriormente alla centrica retrusa) varia secondo la salute delle strutture articolari.

Nelle articolazioni sane è permesso un piccolissimo movimento posteriore (1 mm o meno) che viene limitato dalle fibre orizzontali interne del legamento temporo-mandibolare (fig. 5).

spostamento orizzontale antero-posteriore

Appunto nell’ambito di tale piccolissima distanza sta’ la differenza tra la posizione determinata dalle manovre retrudenti (tipo gnatologico) e quella ottenuta con la tecnica bimanuale di Dawson.

Se intervengono fattori patologici nelle strutture della giuntura la libertà antero-posteriore può aumentare.

Il problema, quindi, non consiste in danni da compressione ma è di natura muscolare.

Per posizione il condilo in basso e in avanti lungo l’inclinazione posteriore dell’eminenza, il muscolo pterigoideo esterno inferiore deve contrarsi.

Nello stesso tempo la forza applicata al condilo dai muscoli elevatori (ovviamente quando ciò sia richiesto dalla funzione) agisce in una direzione superiore e leggermente anteriore con la tendenza, già considerata, di alloggiare il condilo nella sua posizione supero-anteriore più stabile.
Queste due forze non sono conciliabili perché lo pterigoideo esterno inferiore è costretto a lottare contro le forti forze dei muscoli della chiusura per stabilizzare il condilo.
Questo tipo di attività antagoniste porta facilmente ad affaticamenti e a disordini muscolari specialmente a carico dello pterigoideo esterno che è molto più debole degli elevatori.
Quindi non sembra che una posizione avanzata sia compatibile con una posizione di riposo muscolare e non può quindi essere considerata la più fisiologica e favorevole.

Bite e relazione centrica

Occorre tenere particolarmente presente questo fatto quando si deve ricostruire l’occlusione dopo aver fatto portare al paziente una placca di svincolo fornita di vallo di riposizionamento (in caso di problemi all’A.T.M.) che spesso alloggia il condilo lungo la parte posteriore dell’eminenza.
In questi casi la posizione terapeutica avanzata a volte viene accettata favorevolmente (anche oltre ogni più rosea previsione) dal sistema neuro-muscolare del paziente; altre volte è necessario retrudere la mandibola quasi alla posizione di partenza in quanto il paziente non si adatta a quella nuova.
È possibile che il meccanismo da cui dipende l’accentazione o meno della posizione terapeutica risieda nella maggiore o minore contrazione a cui deve andare incontro lo pterigoideo esterno inferiore (oltre alla variabile adattabilità individuale neuro-muscolare).
Si può concludere che la posizione supero-anteriore del condilo che riposa contro l’inclinazione posteriore dell’eminenza con il disco articolare interposto, sia la più accettabile anatomicamente (dato il grande spessore dei tessuti articolari su cui viene esercitata la forza) e fisiologicamente.
Oltretutto essa presenta il vantaggio protesico di essere riproducibile, essendo il condilo in una posizione supero-anteriore di bordo; può permettere infatti (tramite la manovra bimanuale di Dawson) un movimento terminale di cerniera.
Essa soddisfa quindi il primo principio di una occlusione funzionale ottimale.

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Disturbi da interferenza del disco o click mandibolari​

Disturbi da interferenza del disco o “click mandibolari”

In questo articolo di approfondimento andremo a parlare del click mandibolare

Cos’è il click mandibolare

La maggior parte dei disturbi da interferenza del disco, volgarmente chiamati “click” dipende da anomale posizioni del condilo dentro la fossa glenoide (dislocazioni condilari), ma spesso il disco si sposta dalla sua sede corretta anche in assenza di malposizioni condilari.
L’eziologia può essere occlusale, traumatica, o anche funzionale, ma tra le cause occorre annoverare anche dismorfismi delle parti articolari ossee o lassità legamentose. La dislocazione del disco può essere reversibile o irreversibile o cronico. In quest’ultimo caso si parlerà di “blocchi articolari” (locking).
Ci occupiamo adesso soltanto dei disturbi da interferenza del disco reversibili che, brevemente e in modo peraltro impreciso, vengono compresi sotto la parola “click”.

Click reversibili

Ci rifacciamo alla descrizione clinica che William Farrar diede di “internal derangement”:
“Uno spostamento anteriore (antero-mediale) del disco articolare associato (o meno) con una dislocazione posteriore o postero-superiore del condilo a bocca chiusa “.
Questa definizione, pur abbastanza estensiva, non comprende la totalità delle possibili malposizioni condilo-discali, ma soltanto la più frequente.
L’articolazione temporo-mandibolare (ATM) necessita, come qualsiasi altra, della stabilità dei capi articolari in maniera che si verifichi lo scorrere reciproco ed armonioso durante la funzione.
Nell’apertura della bocca il condilo compie una fase di movimento rotatoria ed una fase traslatoria.
La fase rotatoria avviene a carico dello scomparto inferiore dell’articolazione, ossia la parte condilo-discale.
Il movimento traslatorio avviene invece per lo spostamento del complesso disco-condilo lungo e sotto l’eminenza articolare, fino al raggiungimento della massima escursione quando tutto il complesso disco-condilo viene a trovarsi sotto il tubercolo articolare.

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La fase traslatoria vede pertanto lo scorrimento delle parti articolanti dello scomparto superiore dell’articolazione, ossia la parte superiore del disco e la volta della fossa-eminenza.

Durante il movimento di apertura della bocca il condilo trasla dunque in avanti e la lamina retrodiscale elastica superiore si attiva ruotando posteriormente il disco sul condilo.

La pressione intra-articolare mantiene il condilo contro la parte intermedia sottile del disco.

Successivamente, durante la chiusura della bocca, la stessa pressione intra-articolare unita al tono dello pterigoideo esterno superiore e alla moderata tensione della lamina retrodiscale, mantengono il disco nella giusta postura sopra il condilo, con una progressiva ed armonica retro-rotazione rispetto alla fossa ed antero-rotazione rispetto al condilo.

A bocca chiusa se la pressione intra-articolare aumenta (per esempio per la deglutizione o per serramento dei denti), il condilo si assesta ulteriormente spingendo leggermente il disco indietro.

Esiste quindi una sorta di continuo autoposizionamento fra disco e condilo in relazione alla pressione intra-articolare e all’azione muscolare.

I legamenti non partecipano attivamente all’azione articolare, ma ne limitano le escursioni estreme .

Nell’internal derangement la sequenza degli spostamenti articolari brevemente menzionati risulta in qualche modo alterata.

Il risultato è un’anomala posizione del disco rispetto al condilo e alla fossa glenoide.


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Situazioni disfunzionali

Schematicamente si possono differenziare tre situazioni disfunzionali.
Esse sono :

  •       Lo spostamento funzionale del disco articolare
  •       Il click reciproco
  •       La dislocazione funzionale del disco articolare

A ciò si possono aggiungere il locking o blocco articolare acuto e cronico che però sono irreversibili e di cui, perciò, non tratteremo in questa sede.
Prima di argomentare i vari tipi di disfunzione, è doveroso fare una premessa di massima, che andrà rianalizzata di volta in volta a seconda del singolo caso clinico. E cioè che:
qualsiasi disfunzione dell’ATM che non comporti limitazione funzionale o dolore, ovvero disagio per il paziente (se il rumore da fastidio), non va trattata, specialmente in pazienti di oltre trent’anni di età.

Spostamento funzionale del disco articolare

Questa condizione si verifica in presenza di lievi alterazioni morfologiche del disco associata o no a un modico allungamento dei legamenti collaterali e in genere ad un ipertono della muscolatura estensoria (ossia della chiusura) e dello pterigoideo esterno capo superiore, ad essa agonista.
L’eziologia è multifattoriale. L’occlusione dei denti ha un ruolo, seppur non essenziale, seguita dai traumatismi, da abitudini viziate o parafunzioni e da lassità legamentosa.
L’esordio della patologia è in genere assai lento e subdolo; la diagnosi precoce è quindi spesso difficile, ma determinante per contenere, se necessario, le eventuali evoluzioni negative.
Lo spostamento discale si verifica più frequentemente in direzione antero-mediale, seguendo il vettore di azione dello pterigoideo esterno.
Teniamo a precisare però che lo spostamento del disco riguarda la sua situazione sul condilo che peraltro rimane conservata.
Ossia il disco si sposta sulla testa del condilo, ma vi rimane pur sempre adagiato; semplicemente ruota e cambia posizione, ma non abbandona la sua sede.
Lo spostamento del disco è in genere parziale, ossia si verifica a carico di un solo polo condilare.
Generalmente il primo a scoprirsi è il polo laterale del condilo. Se la lesione progredisce, a poco a poco si scopre anche la parte centrale e in seguito la mediale del condilo, fino a che lo spostamento discale diviene totale.
Si parlerà allora di dislocazione del disco che, se diventa irreversibile, si chiama “locking cronico”.
All’inizio lo spostamento apparirà in linea di massima durante i movimenti funzionali, tendendo i legamenti già allungati e sofferenti.
Durante l’apertura della bocca il condilo riscivola sotto la porzione intermedia del disco e la situazione si normalizza.
Il corretto riallineamento del disco sul condilo può causare un click, dovuto al condilo che per trovare la posizione corretta deve superare una sporgenza, una specie di cresta, che può essersi formata nella superficie discale inferiore .
Spesso la bassa pressione articolare non evidenzia alcun click che può invece comparire qualora la chiusura forzata dei denti aumenti la pressione il condilo sotto il disco. 
Il paziente riferirà un lieve rumore in apertura, in genere molto tenue e precoce, senza dolore, udibile soltanto saltuariamente e dopo periodi di bocca chiusa (per esempio al risveglio).

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La terapia dello spostamento funzionale del disco articolare

La terapia dal punto di vista occlusale si ottiene con l’uso del bite che ha la primaria funzione di assicurare stabilità occlusale e di far rilassare la muscolatura in modo rapido e reversibile.
Ci si avvale di un bite piatto, superiore o inferiore a seconda del tipo di occlusione, equilibrato perfettamente in occlusione abituale e nei movimenti eccentrici, che andrà portato ad intervalli o solo la notte, a seconda dell’insorgenza del disturbo.

Il click reciproco 

Il click reciproco è una fase di aggravamento rispetto alla disfunzione sopra descritta, i fattori patogenici sono pur essi un aggravamento dei precedenti, cioè parafunzioni, lassità legamentosa, fattori traumatici e, in ultimo, malocclusione.
Le principali caratteristiche del click reciproco sono :
L’emissione di un primo rumore, che può verificarsi in ogni punto dell’apertura ed è tanto più tardivo (di grado più elevato) con l’aggravamento del quadro.
L’emissione di un secondo click (reciproco) che avviene in chiusura e più vicino alla posizione di bocca chiusa (di grado basso).
Per inciso ricordiamo che per “grado” si intende la misura in mm dell’apertura a livello interincisale espressa con un numero che indica appunto il grado.
Per esempio un click che compare a 20 mm di apertura, sarà di grado 2. A 25 mm sarà di grado 2 e mezzo e così via.
In genere il grado del click in chiusura, se presente, è 1 o frazioni di 1.
In apertura è variabile, ma, al di sopra del 2, si deve parlare di dislocazione del disco.
E’ importante specificare che la ricattura del disco dislocato può avvenire non solo con la produzione di un rumore bensì anche con lievi deviazioni della mandibola lungo il tragitto di apertura e di chiusura.
Ciò avviene perché il condilo, anziché ricatturare il disco superando di colpo il bordo, lo aggira. 

La terapia del click reciproco

La terapia del click reciproco si fonda sul riposizionamento mandibolare che si conduce con l’uso del bite col vallo di riposizionamento, che ha lo scopo di costringere il paziente a chiudere la bocca in posizione terapeutica, cioè in assenza di click.
Ultimamente la tecnica del riposizionamento mandibolare tramite i bite con vallo è confinata a casi particolarmente favorevoli (nelle posizioni e condizioni terapeutiche), o sfavorevoli (nella clinica) e soltanto in pazienti giovani (sotto i venti anni di età) e in cui sia programmato un trattamento ortodontico per altri motivi, o in cui siano presenti blocchi recidivanti o dolore.

La terapia del click reciproco
Il click reciproco. Come si vede, il disco articolare rappresentato in blu rimane più o meno in posizione fra condilo e fossa durante tutto il movimento. Il quadro clinico non è allarmante e il click può avvenire in qualunque momento in apertura e in chiusura vicino alla posizione di bocca chiusa


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Dislocazione funzionale del disco articolare

La fase successiva rappresenta una transizione verso il blocco articolare cronico.
L’aggravamento progressivo riguarda sempre le stesse strutture, in questa fase il disco risulta dislocato completamente in avanti e medialmente, salvo recuperare il disco nei momenti di massima apertura, con produzione di un forte schiocco di grado elevato, più o meno associato a lieve deviazione mandibolare.
Questa condizione viene detta: ”dislocazione funzionale del disco con riduzione”.
Il click in chiusura è quasi sempre ben evidenziabile, anche se di grado basso.
Il dolore, se presente, è dovuto allo stiramento del tessuto retrodiscale, dei legamenti o della capsula, ed è assente in genere a riposo.
Può presentarsi anche a riposo qualora sia presente stringimento dei denti o bruxismo, perché allora il carico si verifica a carico del legamento bilaminare posteriore che può essere ancora vascolarizzato e innervato.
Ricordiamo inoltre che qualsiasi articolazione, anche sana, se sottoposta a carico eccessivo per lunghi periodi, può dolere.
Con il progressivo cronicizzarsi della situazione il dolore diminuisce perché l’innervazione nei legamenti allungati e compressi viene perduta.
In questi casi è sempre presente e ben evidenziabile in qualsiasi immagine diagnostica una dislocazione distale e superiore del condilo con diminuzione dello spazio retrocondilare.
In generale si può concludere che nell’ internal derangement il disco viene dislocato in direzione opposta rispetto a quella in cui si sposta il condilo.
Pertanto quando il condilo si dirige posteriormente il disco va anteriormente.
Se il condilo va medialmente o lateralmente, il disco va rispettivamente lateralmente o medialmente.

La terapia della dislocazione funzionale del disco

La terapia della dislocazione funzionale del disco articolare consiste nella non attivazione del rumore (click), ottenibile volontariamente da parte del paziente limitando l’apertura della bocca appena prima che il click avvenga, cosa abbastanza agevole in quanto il click si verifica ad aperture mediamente più elevate di quelle funzionali.
Se il paziente esegue diligentemente questa limitazione, in genere nel giro di un mese la ricattura del disco diventa quasi impossibile, un po’ per ulteriore allungamento dei legamenti, un po’ per una certa contrazione miostatica dei muscoli che limitano il range  di apertura e infine per un certo dismorfismo delle superfici articolari del disco non più attivate.
In pratica si pilota la dislocazione funzionale del disco verso il locking cronico.
Questa operazione è chiamata “meniscectomia clinica incruenta“.
Essa va ovviamente supportata dalla eliminazione di tutti quei fattori che possono aver causato o favorito la disfunzione, e dalla riduzione di ogni parafunzione dannosa.
Soltanto in questo caso sarà possibile il recupero funzionale dell’articolazione tramite la fibrotizzazione del legamento bilaminare posteriore che diventerà uno pseudo-disco.
L’uso del bite piatto durante tutta la fase di preparazione della meniscectomia incruenta è senz’altro raccomandabile insieme con la consuetudine di masticare il cibo preferibilmente dalla parte dell’articolazione da cronicizzare.

Dislocazione funzionale del disco. L’aggravamento progressivo della disfunzione articolare fa sì che nell’immagine, apparentemente simile alla precedente, il disco in azzurro risulti dislocato completamente in avanti e venga recuperato nei movimenti di massima apertura provocando un forte “schiocco”

GBR – Come rimuovere la membrana non riassorbibile rinforzata in titanio? (VIDEO)

La rigenerazione ossea guidata (GBR) è un trattamento che viene spesso classificato come “invasivo”. In realtà, se eseguito seguendo il protocollo, anche questo trattamento può essere facilmente sopportato dal paziente il quale la maggior parte delle volte riporterà di avere avuto un lieve fastidio. Tutte le procedure che hanno l’obiettivo di creare le condizioni spaziali e biologiche per innescare la produzione di nuovo osso attraverso i meccanismi di guarigione possono chiamarsi GBR. In effetti, in GBR ci sono differenti materiali usati per isolare la compagine di osso nativo dal periostio attraverso barriere.

Le barriere possono essere:

  • in Collagene nativo (riassorbibili)
  • in Polytetrafluoroethylene espanso (ePTFE) rinforzate in titanio – non riassorbibili e non pìù in commercio
  • in Polytetrafluoroethylene denso (dPTFE) rinforzate in titanio – non riassorbibili
  • in Titanio personalizzate sul difetto osseo del paziente – non riassorbibili

Senza entrare in innumerevoli dettagli sulla grandezza dei fori delle membrane o delle maglie delle griglie in titanio e del loro ruolo sulla osteogenesi attraverso i gettoni vascolari dal periostio e dall’osso basale, soffermiamoci sulla tecnica di rimozione di una di queste barriere, quella in dPTFE, la maggiormente utilizzata per i difetti verticali puri specialmente in mandibola insieme alla Mesh in titanio personalizzata (nuovo trend indiscusso nella rigenerazione ossea digitale).

La rimozione della membrana non riassorbibile può avvenire dai 6 mesi (nei casi più favorevoli nel mascellare superiore) fino ai 12 mesi in osso mandibolare particolarmente corticalizzato, magari basale. Quello che sappiamo già di trovare sotto una membrana rinforzata in titanio non è osso formato bensì osso neo-formato, una matrice ossea immatura o matrice osteoide. Osso NON adatto ad essere funzionalizzato o traumatizzato e che necessita ancora nutrienti e “cure” sia dall’osso nativo sia (e soprattutto) dal periostio. Però la battaglia è già vinta.

La matrice osteoide è dura e appare di aspetto pastoso seppure non ancora molto vascolarizzata. Le cellule mesenchimali totipotenti si sono già differenziate in osteoblasti perchè i gettoni vascolari durante i mesi di sommersione della membrana sono provenuti quasi esclusivamente dall’osso nativo mentre le informazioni genetiche dal periostio sono state “selettivamente bloccate” dalle fitte maglie della barriera, attraverso le quali non passano nemmeno i batteri (arma a favore).

Quindi come agiamo? Come sempre anestesia sottoperiostea molto lenta (1 ml/1 minuto), nessun antinfiammatorio o antibiotico d’obbligo (solo un antifiammatorio al bisogno) e un’ora di appuntamento compresa anestesia, documentazione clinica e fotografica e due parole con il paziente.

Non c’è bisogno di sterilità o di preparazione della sala chirurgica, se lo riteniamo opportuno e se la rimozione non comporta manovre delicate come un innesto di tessuto connettivo contestuale per inspessire la sottile mucosa o l’inserimento degli impianti.

Questi sono i passi da seguire:

  1. Incisione crestale senza tagli di svincolo
  2. Scollamento a tutto spessore fino a individuare il margine membrana/osso apicale
  3. Utilizzo di uno scollaperiostio non affilato o di una spatola Heidemann a mo’ di “cacciavite”
  4. Azione di leva e di svitamento delle microviti (da 3 mm) laddove avevamo inserito le viti (il tutto è annotato nella cartella implantare del paziente)
  5. Completa rimozione della membrana
  6. Sutura a punti semplici o a materassaio orizzontale + punti semplici 
  7. Rimozione suture a 1 o 2 settimane

Due osservazioni possiamo aggiungere:

  1. Può succedere che le viti non siano facilmente accessibili o che, pur avendone scritta schematicamente la posizione in cartella implantare, non si riescano a trovare. Non è un problema lasciare una microvite in titanio, anche per sempre, purchè siamo sicuri di aver completamente rimosso la più piccola parte di membrana.
  2. La sutura non deve essere in ptfe o in pga o in alcun materiale “pregiato” (aspetto invece fondamentale nella sutura dopo l’inserimento della barriera) e può essere in semplice seta.

Insomma, la rimozione della membrana è la procedura più semplice in GBR e forse quella che dà più soddisfazione. Buon lavoro!

Il full-arch nel paziente edentulo nell’era digitale: carico veramente immediato, senza lembo e chirurgia per tutti (VIDEO)

di Vittorio Magnano

L’era dei “grandi chirurghi” è terminata. La mininvasività e la digitalizzazione avanzano inesorabilmente e “la mano” si fa sempre più da parte per lasciare posto alle “macchine”. Questo vale in tutti i campi della cultura umana e anche nella nostra piccola odontoiatria, almeno per i casi semplici, ovvero i casi nei quali il paziente ha osso nativo nel quale inserire impianti.

In effetti, nel caso in cui sia necessario rigenerare osso perduto o per infezioni o per precedenti fallimenti implantari “la mano” ha ancora la sua grande importanza ma ringrazia la tecnologia per il prezioso aiuto dato tramite griglie in titanio personalizzate, previsualizzazione dei cc precisi di osso autologo e eterologo da innestare, dime chirurgiche per le corrette antrostomie o per osteotomie e ostectomie per l’accesso ai siti donatori di osso autologo.

Quindi, inserendosi in osso nativo, gli impianti di una All-on-4 o più genericamente di una protesi Toronto avvitata su X impianti sono impianti semplici e semplici devono rimanere. Pertanto, se disponiamo (e tutti gli odontoiatri ne dispongono) di una tecnica che:

  1. Riduca il numero di appuntamenti,
  2. Riduca gli atti chirurgici,
  3. Riduca l’utilizzo di anestetici,
  4. Riduca l’ausilio di terapie farmacologiche,
  5. Assicuri la standardizzazione dell’unico atto chirurgico,
  6. Assicuri il corretto posizionamento implantare nell’osso nativo,
  7. Riduca lo stress per l’odontoiatra,
  8. Riduca al minimo la possibilità di incorrere in ampi lembi di accesso,
  9. Massimizzi la percentuale di chirurgie senza lembo,
  10. Elimini il tempo (e lo stress) di avvitamento dei Multi Unit Abutment,
  11. Utilizzi impianti con MUA integrato,
  12. Riduca il rischio di microinfiltrazioni e di microgap nelle connessioni protesi-impianto,
  13. Garantisca la consegna della protesi a fine chirurgia e non 6-8-12-24-48 ore dopo,

LA DOBBIAMO ESEGUIRE!

Di decine di Toronto su pazienti edentuli consegnate nel 2020 e 2021 negli studi Dental One mai c’è stata l’ombra di fantasmi del passato come lembi spettacolari, dime analogiche di Malò, MUA da avvitare, impronte in gesso e carichi “immediati” a 24 ore.

Quali sono gli step OGGIGIORNO per l’odontoiatra quando il paziente totalmente edentulo necessita di un full-arch su impianti (togliendo prima visita, studio del caso, piano di cura e preventivo)?

  1. Modifica con punti di repere in materiale radiopaco e adeguamento della protesi totale del paziente ai fattori di stabilità, supporto e retenzione e occlusione nella posizione muscolo-scheletricamente stabile (o vecchia “relazione centrica”) o confezionamento di una dima radiologica che abbia i suddetti requisiti.
  2. Progettazione digitale fatta in team con odontotecnico e ingegnere informatico
  3. Atto chirurgico flapless e consegna della protesi progettata digitalmente PRIMA della chirurgia
  4. Meticoloso controllo occlusale

Se in tutto ciò vogliamo aggiungere un lavoro in sala chirurgica in team con almeno due assistenti sterili e una non sterile, la ansiolisi endovenosa NON eseguita dall’anestesista ma dal sedazionista chirurgo, la chirurgia durerà un’ora e il paziente non prenderà nemmeno un antinfiammatorio (anche se noi glielo avremo prescritto).

Se invece vorrete continuare a lavorare come si lavorava nel 2001 con lembi, ematomi, anestesisti (che utilizzano magari farmaci non permessi in uno studio odontoiatrico), impronte in gesso o in Impregum e consegna a 24 ore della protesi (se il tecnico ce la fa..), non vi è alcuna legge che vi vieta di farlo ma sicuramente non siete al passo con i tempi e non fate il bene del paziente ma della vostra inerzia cognitiva.

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Il senso occlusale positivo – un caso di coscienza (quinta parte): terapia

Giorgio Magnano e Vittorio Magnano
Giorgio Magnano e Vittorio Magnano

Dopo definizione, dinamiche neuropsichiche, sintomatologia e prevenzione, concludiamo questa breve trattazione con la terapia.

Se il paziente riferisce  precontatti o slivellamenti occlusali che il dentista non riesce a evidenziare, pur con un accurato esame occlusale,  la terapia non deve essere  una ulteriore correzione occlusale, magari seguendo indicazioni soggettive del paziente, ma la rieducazione cognitivo comportamentale, psicoterapia, farmacoterapia e terapia gnatologica reversibile tramite l’uso  di placche di svincolo (bite). Ossia, in altre parole, la condotta terapeutica si dovrà indirizzare verso quegli organi o apparati in cui si rileva una oggettività di segni sui quali ci sia spazio per un intervento correttivo. Quindi se lo stato occlusale non presenta imperfezioni oggettivabili  con i normali presidi diagnostici a disposizione del dentista, è inutile (e pertanto potenzialmente dannoso) incaponirsi con modifiche occlusali condotte più o meno alla cieca che non faranno altro che sottolineare e legittimare un atteggiamento ossessivo del paziente nei riguardi del disturbo, dell’occlusione, del contatto. Occorrerà pertanto indirizzare l’attenzione verso gli altri apparati e sistemi coinvolti nella cenestesi . Se, come si evince dalla definizione, il disturbo consiste essenzialmente in un senso, sensazione, consapevolezza o coscienza, bisognerà agire  riguardo al sistema responsabile di tali eventi, cioè sul sistema nervoso.

Tuttavia se il paziente si rivolge a noi, che siamo dentisti, è perché attribuisce ai denti il proprio disagio, e in effetti sui denti il disagio si manifesta, anche se i denti non ne hanno responsabilità diretta. Il SOP, nella sua accezione pura, ossia di “senso” avulso da momenti causali occlusali clinicamente rilevanti e rilevabili, è una forma di allucinazione e come tale va trattata, quindi, in fin dei conti, farmacologicamente. Ma siccome noi siamo dentisti ed essendo il SOP, comunque , una forma di allucinazione minore, prima di ricorrere a farmaci di cui non possediamo dimestichezza, ovvero indirizzare il paziente da uno psichiatra (decisione delicatissima da comunicare!) vale la pena di provare un intervento occlusale, ossia il bite plane, con la speranza di distrarre lo schema occlusale e la sensazione a partenza  e bersaglio occlusale. Il bite va bene in quanto presidio reversibile. Se inutile o dannoso, può essere eliminato senza problemi. Evitare invece nella maniera più assoluta i ritocchi occlusali anche quando, come avviene quasi sempre, il paziente indichi con estrema  precisione (arriva anche a indicare il versante cuspidale) la sede del contatto disturbante. Essendo una forma allucinatoria, eliminare col molaggio il contatto indicato, equivarrebbe, per uno psichiatra, a zittire le voci che il paziente schizofrenico dice di sentire ( Da notare tuttavia che talvolta all’indicazione del paziente può corrispondere  un piccolo precontatto che passerebbe inavvertito in un paziente normale e inosservato ad un esame routinario. Si verifica cioè un incremento della sensibilità  occlusale donde il nome ipervigilanza occlusale. Questa ipervigilanza sopravanzerà sempre la buona volontà del dentista).

La  gestione del bite può non essere semplice in quanto, anche se efficace, in personalità che hanno sviluppato SOP e che ci vivono attorno, occorre evitare che il bite assurga a simbolo eccessivamente ingombrante, arrivando a costituire, a sua volta, una forma di patologia. Al bite va  pertanto affiancato un supporto psicologico che, limitatamente alle nostre competenze, consiste nel far capire al paziente che siamo a conoscenza del problema, che esso non è fittizio, che ha delle basi neuroanatomiche ben precise e infine, con parole semplici, spiegarle al paziente. La soddisfazione dell’esigenza di causalità propria dell’essere umano, conoscere cioè la causa di un fenomeno, ne diminuisce la carica emozionale e ne elimina l’angoscia. E questo è già  di per sé una buona terapia.

Ansia in odontoiatria: il trattamento psicologico

Il carrello e la cartella anestesiologica

Prima di leggere questo articolo consiglio la consultazione di quest’altro argomento introduttivo: https://www.stomatological.it/paura-e-ansia-in-odontoiatria-collocazione-concettuale/.

Il trattamento dell’ansia è raramente esclusivamente farmacologico, ma parte comunque sempre da procedure psicologiche con lo scopo di desensibilizzare il paziente. Il primo approccio, secondo William e Long, dovrebbe essere puramente informativo e avvenire in un ambiente senza riunito o riferimenti agli interventi (turbine, faretre e strumenti odontoiatrici in vista). In realtà raramente è possibile un siffatto approccio ma in effetti quasi mai si eseguono nei nostri studi trattamenti già in fase di prima visita. La “prima visita” consta di due fasi: la prima è un colloquio amichevole e informale (“Piacere Vittorio, come ti chiami? Come sei venuta a conoscenza della nostra clinica? Dimmi tutto) dove si “ascolta” il paziente. Lo si ascolta a 360 gradi nei suoi aspetti e confidenze odontoiatriche ma anche psicologiche e sociali. Si effettuano gli esami strumentali diagnostici (meglio se non intraorali subito) e un piano di cura, basato innanzitutto sul “chief complaint”, il motivo della visita. La settimana o i giorni successivi il paziente tornerà e avrà un preventivo personalizzato, con tutti i metodi di pagamento possibili e immaginabili, e si stabilizzerà la sequenza degli appuntamenti per specialità (prima igienista, poi conservativa, poi estrazioni etc.).

Nel caso in cui il primo approccio sia avvenuto per via telefonica o whatsapp, carpiremo informazioni sullo stato di ansia del paziente: un tono di voce basso e una respirazione lenta indicano una condizione di tranquillità, mentre un tono agitato con sequenze di parole veloci e un respiro affannato indicano che il paziente è ansioso. Già da queste semplici informazioni potremo decidere se procedere subito con le richieste poco lucide del paziente, o se agire “per priorità” partendo magari da un colloquio necessariamente in un ambiente non odontoiatrico e da una visita informale che parte da una semplice panoramica che ci consente di dare un supporto farmacologico per attenuare il dolore.

Procedure specifiche possono contribuire ad attenuare l’ansia come ad esempio il rispetto del tempo necessario per ottenere l’anestesia, o attuare tecniche di comunicazione come il “discorso circolare” nei momenti di attesa come l’indurimento di una pasta per impronta o di una resina o dell’effetto dell’anestetico. Queste tecniche impediscono al paziente di sprofondare nuovamente nelle proprie ansie e angosce, che altrimenti sarebbero rievocate in un momento di silenzio imbarazzante o prolungato.

Le sale di attesa degli studi odontoiatrici dovrebbero rispondere a requisiti come le dimensioni contenute, le pareti tinteggiate con colori neutri come il blu o il grigio chiaro e un arredamento con quadri e oggetti di svago non invadenti e assolutamente non di uso odontoiatrico (pinze da estrazione antiche, strumenti di igiene orale etc.).

Per tutti i tipi di pazienti, ansiosi e non, la comunicazione deve essere altruistica ovvero ascoltare il paziente guardandolo direttamente in faccia oppure rispecchiare il comportamento non verbale dell’altro (tecnica del “mirroring”). In altre parole ci deve essere “circolarità” nella comunicazione fra medico e paziente. Frasi con esplicita richiesta di collaborazione con l’uso delle seguenti espressioni. “è opportuno, è utile che lei tenga la bocca più aperta” possono ancorare il soggetto e predisporlo ad un ruolo partecipativo.

Può essere necessario che pazienti particolarmente ansiosi debbano essere inviati da uno psicologo o che lo psicologo possa venire direttamente in studio, dove cercherà di deconnettere progressivamente il paziente dagli stimoli nocivi dell’ambiente odontoiatrico. La figura dello psicologo risulta particolarmente utile nei pazienti affetti da dolore orofacciale, da disestesia occlusale o senso occlusale positivo (https://www.stomatological.it/il-senso-occlusale-positivo-un-caso-di-coscienza-definizione/).

I manuali di ipnosi medica rapida ci hanno insegnato le tecniche di distrazione e di rilassamento. Ad esempio, l’odontoiatra può ricorrere a procedure di distrazione permettendo al paziente di giocare con un videogame o di ascoltare musica o di vedere un filmato. Il rilassamento sembra essere più efficace nel sesso femminile mentre la distrazione è più efficace nell’uomo.

Il senso occlusale positivo – un caso di coscienza (quarta parte): prevenzione

di Giorgio Magnano e Vittorio Magnano

Non è facile definire un protocollo di prevenzione per il SOP, perchè la sua insorgenza non dipende da errori tecnici esecutivi o dalla qualità del manufatto protesico, né dalla sua estensione. Può insorgere per una riabilitazione completa come per la protesizzazione di un solo elemento. E’ chiaro che la corretta occlusione dei denti  e l’assoluta stabilità occlusale va rispettata e perseguita, ma questo vale in assoluto, indipendentemente dall’evento SOP. Senza accampare la pretesa di prevedere o intercettare in anticipo l’eventuale insorgenza di SOP, che è imprevedibile, si possono tuttavia  adottare alcuni accorgimenti sia comunicativi che tecnici per tutelare operatore  e paziente. Già in sede di prime visite, dall’accoglienza, alla compilazione del piano di trattamento  e programmazione dell’intervento, è indispensabile osservare il paziente  e fare un’accurata anamnesi. Innanzitutto l’anamnesi odontoiatrica. Indagare sulle  pregresse esperienze  e sugli atteggiamenti verso i dentisti che ci hanno preceduti.  Atteggiamenti eccessivamente critici o ostili, per non parlare di procedimenti assicurativi o legali, potranno suggerire cautela. Evitare sempre qualsiasi commento negativo su lavori pregressi. Non risparmiare invece quelli positivi, se meritati.  Si passa poi all’anamnesi personale. Indagare  sulle  abitudini di vita (situazione famigliare, lavorativa ecc.). Chiedere se ha un buon sonno, se soffre di cefalee, se ha una buona digestione, se assume farmaci di qualsiasi tipo, facendo particolare attenzione a ogni psico o neurofarmaco ( ipnoinducenti, ansiolitici, antidepressivi, neurolettici, antiepilettici ecc.). Se il paziente è donna chiedere se le mestruazioni sono o erano dolorose. Se soffre di allergie o disturbi della pelle. Se fuma o ha fumato. Se ha abitudine ad assumere alcolici e in quali modalità. Osservare poi alcuni particolari che possono indiziare una personalità tendenzialmente ansiosa o ossessiva, come, per esempio,  un’eccessiva logorrea o, d’altro canto,  la presenza di onicofagia, e naturalmente chiedere se ha consapevolezza di stringere o digrignare i denti. All’esame della bocca osservarne ovviamente l’igiene e l’usura delle superfici occlusali e notare se è presente splinting ( ossia la tendenza a chiudere lentamente e inconsapevolmente la bocca, segno di uno stato di disagio del sistema muscolare). Gli operatori più tecnici  potranno  avvalesi dell’ausilio di uno dei vari test psicodinamici a disposizione in letteratura, ausilio utile, ma non  necessario.

Già dalla presenza di alcune di queste caratteristiche si potrà trarre un quadro indiziario, ma significativo del possibile stato psicofisico del paziente, la qual cosa molto raramente  escluderà di procedere alle terapie, ma potrà suggerire più attenzione su  alcune cautele  tecniche e procedurali elencate di seguito.

In linea di principio la strategia di base per minimizzare i rischi, qualsiasi rischio, consiste nell’ apportare le minori variazioni possibili rispetto alle condizioni di partenza. Quindi, innanzitutto fare il meno possibile, ossia protesizzare soltanto gli elementi che sono strettamente indispensabili. Mantenere, se possibile, la stessa dimensione verticale di partenza, tenendo tuttavia presente che eventuali alterazioni della DV, se necessari, sono meno rischiosi sulla via dell’incremento che della diminuzione, anche perchè, nel tempo e attraverso successivi interventi odontoiatrici, è molto più frequente una perdita di DV che un  incremento). Per lo stesso motivo mantenere la relazione centrica, o meglio l’occlusione abituale pre-cura, qualora questa risulti ben tollerata. Qualora si renda necessario apportare delle modifiche, farle prima sui provvisori e lasciare gli stessi in funzione per una arco di tempo sufficiente alla verifica di eventuali disturbi (anche qualche mese in caso di riabilitazioni complesse). Mantenere il più possibile l’indipendenza dei singoli elementi protesizzati. Eseguire la riabilitazione per settori, poco per volta, dando la precedenza preferibilmente all’arcata inferiore che notoriamente è l’arcata guida. Qualora il provvisorio vada bene e il paziente sia soddisfatto sia nell’estetica, che nella funzione masticatoria e fonetica, che nella cenestesi, riprodurlo il più fedelmente possibile nel definitivo. In caso di elementi molto compromessi, dare la preferenza all’avulsione e alla sostituzione implantare, piuttosto  che avventurarsi in conservative preprotesiche estreme. Cercare, per quanto possibile, di non enfatizzare troppo il ruolo dell’occlusione, del contatto fra i denti, con molaggi  interminabili e richieste di indicazioni di eventuali prevalenze, ovviamente senza sacrificare la stabilità del tutto (che non dipende da ogni singolo contatto tripodale!).

Ma il SOP può comunque insorgere. Vediamo adesso come cercare di curarlo.